Gli uccelli, misteriosi, che vivono lungo il fiume che divide la fabbrica protagonista dell'omonimo romanzo di Hiroko Oyamada.

Neri Pozza ha portato in Italia due romanzi di Hiroko Oyamada, La fabbrica e La buca. Con influssi kafkiani e incursioni nel fantastico, i due scritti mostrano come il lavoro si sia mangiato le nostre vite e il loro senso.

Una donna lascia il lavoro e si trasferisce in campagna con il marito, ottenendo una libertà mai conosciuta. Un’altra, dopo aver perso ben cinque impieghi, ne trova uno all’interno di una prestigiosa fabbrica in cui lavora anche il fratello, ritrovando una certa sicurezza economica, ancorché precaria. La fabbrica e La buca sembrano due romanzi distanti per contesti e tematiche, ma scorre in entrambi una vena sotterranea comune, che ritrae un mondo del lavoro che cannibalizza la vita dell’individuo, ma non come ci si aspetterebbe in un romanzo giapponese.

Moli di lavoro ingestibili, straordinari non pagati, mobbing, rigida gerarchia e inquadramento sociale: così per anni ci è stata raccontata la dimensione lavorativa giapponese e, di riflesso, quella sociale di un paese in cui l’impiego è un tassello centrale della definizione di sé. Anche lavori precari, socialmente degradanti e a tratti mortificanti (l’impiego al konbini di La ragazza del convenience store, il turno notturno alla fabbrica di bento in Le quattro casalinghe di Tokyo) hanno svolto negli anni una funzione chiave nel raccontare le identità anche di coloro che vivono ai margini, soprattutto donne, la cui condizione sociale si riflette proprio in un lavoro di basso livello. Hiroko Oyamada s’inserisce appieno in una rinnovata attenzione della letteratura giapponese per gli impatti profondissimi e talvolta disumanizzanti che il mondo del lavoro ha sull’organizzazione sociale giapponese. Lo fa però sottraendo all’equazione un elemento importante: il senso stesso del lavorare.

Il suo romanzo d’esordio La fabbrica (2013) può sembrare un incubo kafkiano con frequenti innesti di elementi surreali, ma facendo bene attenzione alle storie dei tre protagonisti è facile indovinare come poggi su un’esperienza diretta e personale. Hiroko Oyamada l’ha scritto quando ancora lavorava come precaria in una casa automobilistica giapponese. Nel romanzo sono tre i punti di vista attraverso cui esploriamo la storia e gli immensi spazi di una mai nominata fabbrica. Inizialmente il briologo, il correttore di bozze e la precaria protagonisti sembrano muoversi sugli stessi piani e negli stessi luoghi, ma più si prosegue la lettura e più la linea temporale viene abilmente frammentata, la geografia dell’immenso territorio che racchiude la fabbrica si divide in aree distinte. Al centro del complesso lavorativo (un vero e proprio microcosmo, un condominio di Ballard in cui nessuno impazzisce visibilmente ma tutti pian piano perdono ogni certezza) scorre un fiume, su cui passa un lunghissimo ponte. Il ponte è così lungo che arrivati al suo centro non si vedono più le due sponde del fiume, il nord e il sud della fabbrica. Due territori che pian piano si distinguono, così come il colori dei pass dei dipendenti.

Nella logica kafkiana della fabbrica tutti perseguono uno scopo, ma ogni lavoro viene via via svuotato di senso, lasciando i lavoratori sconcertati sulla loro presenza dentro l’azienda. La protagonista per esempio si ritrova a distruggere plichi di documenti con un’apposita macchina, per ore. Un lavoro tedioso e che potrebbe essere automatizzato facilmente, ma per cui la fabbrica destina tempo e risorse. Pian piano le storie dei tre protagonisti e i loro impieghi s’intrecciano e non è difficile immaginare un collegamento tra l’attività della donna e quella del correttore di bozze, che si ritrova tutti i giorni penna rossa alla mano a correggere testi la cui attinenza con il misterioso lavoro della fabbrica sembra sempre più labile. Lui, abile tecnico informatico, si ritrova ad affrontare un lavoro obsoleto e dalla valutazione difficile, che finisce per indurgli narcolessia. Questo però è il nord della fabbrica, dove si concentrano i lavoratori precari, troppo distanti dalle tantissime mense e ristoranti interni da poterne usufruirne, con stipendi risicati e lavori fisicamente impegnativi, anche se dal senso e dagli scopi sfuggenti.

A sud invece si muove Furufue, un briologo che viene convocato tramite la sua università a lavorare a un progetto di rinverdimento dei tetti della fabbrica tramite muschi. Un piano mastodontico, impossibile da affrontare per una sola persona, per giunta senza esperienza, alle cui perplessità viene sempre risposto di prendersi tutto il tempo necessario, anche una vita. Solo nelle fasi avanzate del romanzo qualcuno rinfaccia allo scienziato l’inutilità della sua presenza in fabbrica, senza però mettere in forse la stabilità del suo impiego e il suo trattamento economico ragguardevole.

La critica occidentale ha riconosciuto in La fabbrica un racconto kafkiano in cui il lavoro diventa una dimensione mentale e fisica totalizzante. Alcuni protagonisti lasciano ogni giorno i confini della fabbrica, ma il romanzo si svolge saldamente al suo interno, elidendo ogni spazio esterno dall’assurdo gigantismo del complesso in cui tutti lavorano a un qualcosa, ma nessuno sembra sapere esattamente cosa faccia. Il romanzo però fotografa anche con precisione un profondo cambiamento del mondo lavorativo giapponese, che fino a qualche decennio fa aveva come pilastro incrollabile quello di fornire un lavoro a vita alle persone, in cambio di fedeltà assoluta alla propria azienda. Il progressivo sfaldamento geografico e temporale di La fabbrica fotografa come Furufue faccia parte di quel mondo, tenuto in vita per la vecchie generazioni grazie alle nuove, riposizionate alla buona in una versione farsesca e precaria di quella realtà lavorativa alienante ma stabile, su cui era possibile costruire il senso della propria esistenza (o annientare completamente la propria individualità).

Le copertine de La fabbrica e La Buca di Hiroko Oyamada, editi entrambi da Neri Pozza

Vittime principali di questo sistema sono le donne, come suggerisce La buca (2014). La protagonista del romanzo lavora duramente, organizzando la sua vita in funzione del lavoro, senza avere un particolare attaccamento allo stesso. Quando al marito viene offerto un impiego migliore in una zona rurale di cui è originario, è ovviamente lei a lasciare il lavoro e seguirlo, ritrovandosi in una realtà ignota: quella di una casalinga con pochi doveri giornalieri e un’immane quantità di tempo libero da riempire, in un’estate coronata dall’assordante frinire delle cicale. Nel passaggio chiave del romanzo, la protagonista finirà in una buca scavata nel terreno da un misterioso animale di cui nessuno sa il nome. Difficile non pensare all’entomologo di La donna di sabbia (1962) di Kobo Abe, a cui capitava la stessa cosa. La protagonista riemerge dal buco grazie a un aiuto inaspettato, ma la sua rovinosa caduta dal mondo del lavoro la fa precipitare in una dimensione dove la realtà è instabile e popolata di figure senza senso e forse nemmeno esistenti. Lo sguardo sul marito e sulla famiglia di lui, osservata al di fuori degli orari dettati da un’attività lavorativa normale, scoperchia aspetti inaspettati, segreti taciuti, somiglianze sinistre.

Liberata da una dimensione lavorativa opprimente, la protagonista si fa sempre più inquieta mentre mette a fuoco con più chiarezza la sostanziale estraneità del marito e della suocera dalla sua vita. Il lavoro non è la tematica centrale di La buca, che si concentra più sulle relazioni e i legami familiari, ma svolge un ruolo fondamentale. A differenza di La fabbrica, qui le attività svolte dai protagonisti della storia sono nebulose. Il lavoro d’ufficio della protagonista è volutamente caratterizzato solo dai suoi estenuanti orari, mentre a un certo punto la voce narrante si rende conto con stupore di non saper con precisione cosa facciano né il marito (in costante contatto coi colleghi tramite cellulare) né la suocera (la cui principale caratteristica è proprio amare il suo lavoro). L’epilogo del romanzo vincitore del premio Akutagawa e candidato al premio Locus per la narrativa fantastica è quindi quasi inevitabile, l’unica via per rientrare in un mondo provvisto di un senso artificiale, superficiale ma avvolgente: quello dato dal lavoro.

La buca sembra un’espansione di un romanzo breve, un omaggio ad Abe e a Murakami, gli scrittori più kafkiani del Novecento giapponese. Io gli ho preferito La fabbrica perché più sviluppato e complesso, specie nella sua parte surreale o fantastica che dir si voglia. La scrittura di Oyamada sembra un bestiario di creature immaginarie che appaiono nella realtà e sconcertano i protagonisti. Nella fabbrica sembrano essersi sviluppate alcune specie autoctone misteriose, simili a quelle presenti all’esterno, eppure uniche nel loro genere. Tra di loro spicca uno stormo di grossi uccelli totalmente neri, simili a cormorani, che stanno tutto il tempo nel fiume, visibili dalla metà del ponte che attraversa le due parti della fabbrica. Sono volatili che non sanno volare, che vivono strenuamente in gruppo, indistinguibili, emettendo versi lamentosi e compiendo balzi. Non se ne scorgono mai gli amori, i piccoli, neppure il momento in cui si nutrono. Seppur mai esplicitato, si coglie qua e là un parallelo con la fauna umana della fabbrica, che finisce per somigliare a una massa di persone raggruppate in un luogo per svolgere funzioni talvolta paradossali, che sembrano spesso essere pensate per alimentare la continua presenza di persone nel complesso e la loro dipendenza dallo stesso, senza produrre nulla di tangibile per un mondo esterno sempre più lontano e irraggiungibile.

Il mondo del lavoro giapponese è fatto di tanti regolamenti e rituali che ne prolungano gli orari e dovrebbero aumentare la coesione sociale all’interno dell’azienda. Agli occhi del capitalismo occidentale, può risultare controintuitivo e anti-economico per come destini tempo e sforzi a riunioni di routine, attività extra-lavorative obbligatorie, servizi forniti da altri dipendenti ai lavoratori “principali”, integrandoli e intrappolandoli sempre di più in un mondo a misura aziendale. Negli ultimi decenni però è un discorso divenuto molto più familiare anche in Europa, per cui La fabbrica e La buca sono romanzi che, oltre alla loro “strana dimensione giapponese”, riescono a parlare quasi a livello subconscio di qualcosa di tanto angosciante quanto universale. La sensazione di essere intrappolati in logiche lavorative pianificate non per la produttività in sé, quanto per riconfigurare la nostra esistenza in funzione del lavoro, che manipola tanto la nostra mente da non potergli sfuggire, neppure quando siamo al di fuori dai suoi spazi e confini, anche quando ciò che facciano sembra più volto ad assicurarci la nostra fedeltà allo stesso più che a dare un risultato o un prodotto di qualche tipo. Non è forse un caso dunque che Sayaka Murata ne I terrestri (2018) equiparasse la società a un fabbrica di persone, a cui i protagonisti opponevano strenua resistenza, costretti a una dimensione radicale e distruttiva dell’esistenza pur di sfuggirgli.

Link Amazon:

La fabbrica di Hiroko Oyamada, Neri Pozza, 2021, 207 pp., 18 euro. Traduzione di Gianluca Coci.

La buca di Hiroko Oyamada, Neri Pozza, 2022, 156 pp., 17 euro. Traduzione di Gianluca Coci.



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